Sono un Fisico Medico e svolgo la mia professione nel Sistema Sanitario Nazionale e questo è un momento critico, concitato: un’altalena tra speranza e angoscia.

Il mio ruolo non mi porta “in trincea” e fortunatamente la mia zona non è tra quelle colpite maggiormente ma questa emergenza riguarda tutti, indistintamente.

Convivo continuamente, come tutti i miei colleghi, con il timore del contagio in ospedale, un luogo ora più che mai messo a dura prova, quel luogo che è la mia seconda casa e che si è trasformato in un lampo in percorsi dedicati, “alt” che richiamano l’attenzione ad ogni varco, indicatori di distanza e regole affisse su ogni porta, corridoi quasi deserti e volti preoccupati.

L’allerta è alta ed è duplice: essere contagiati e portare il contagio.

Lavoriamo a stretto contatto con i medici che assistono pazienti e quindi  il rischio di essere contagiati è molto elevato e si avverte fortemente. I nostri ambienti necessitano di continua sanificazione e l’uso di mascherina e guanti è ovviamente d’obbligo, anche se, come per tutti, i DPI purtroppo non sono sempre disponibili.

Si tratta di un minimo sforzo per la sicurezza di tutti, ma lavorare con la mascherina tutto il giorno e prestare attenzione a tutte le superfici sulle quali si poggiano le mani contribuisce notevolmente ad aumentare lo stress. Sembra banale, ma con un paio di guanti e mezzo volto coperto le azioni di tutti i giorni non sono più così disinvolte.

La preoccupazione più grande però è quella di portare il contagio, esserne il vettore, consapevole che attorno abbiamo pazienti oncologici, alcuni anche immunodepressi e con un quadro clinico già compromesso. Ai nostri pazienti occorre garantire la  continuità di servizio perchè necessitano, come sempre, della cura adeguata e della sicurezza che nulla potrà interferire con lo svolgimento della terapia, la loro terapia salvavita. E questo dipende anche da noi, dal nostro stato d’animo e dalla nostra professionalità.

Sono cosciente che non posso assolutamente assentarmi ma in qualche momento mi capita di pensare che mi piacerebbe restare a casa con la mia bimba che non va a scuola, vivere un’inconsueta quotidianità con il calore famigliare. Mi piacerebbe trovare un modo per poter lavorare da casa, ma so che non è possibile perché il nostro contributo è ancora più importante in un momento come questo.

Ecco che prende forma l’idea che il mio lavoro, come quello di tutti gli operatori sanitari, è una missione alla quale non posso e non voglio sottrarmi.

Mi è capitato di essere a contatto con un medico che ha contratto il COVID-19, ero in una sala operatoria a svolgere i miei controlli di qualità su un’apparecchiatura, soliti protocolli e solite azioni che fanno parte della routine lavorativa. Qualche giorno dopo è arrivata la notizia del caso positivo e sono stata messa in quarantena precauzionale. Sono stati giorni in cui allo spaesamento di una quotidianità stravolta si sono aggiunti la preoccupazione di aver contratto il virus e la possibilità di aver veicolato il virus nel mio reparto ed anche fuori, lontano dal luogo in cui lo avevo potuto contrarre. Fortunatamente è andata bene, sono passati i lunghi giorni di isolamento e sono rientrata a lavoro, felice di rientrare e partecipare insieme ai miei colleghi al vorticoso tam-tam di questi giorni.

Continuo a lavorare con la speranza che tutto finisca presto, con la massima fiducia verso un Sistema che regge e controbatte ai duri colpi ricevuti e con la consapevolezza, sempre più forte, che davanti a questa epocale emergenza sanitaria, con lo sforzo di ognuno ne verremo fuori migliori di prima.

 

Dott. Fis. Erica Martinucci